La giustizia nella Chiesa ha un significato complesso che va oltre la definizione prettamente tecnica. Parte integrante della missione della Chiesa è promuovere la giustizia, al fine di valorizzare la dignità dell’essere umano.
Il Concilio Vaticano II insegna che la Chiesa è realtà misterica che agisce nel tempo e nello spazio per la salvezza di tutti gli uomini: «Ecclesia sit in Christo veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis» (Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Constitutio Dogmatica de Ecclesia, Lumen Gentium, in AAS, LVII, 1965, 5, n.1).
Questo mistero sacramentale è presente in tutti gli elementi che costituiscono la realtà ecclesiale, quindi anche in quello giuridico. Invero, il Concilio lo ribadisce allorché afferma che all’uomo appartiene una dignità speciale, riconosciuta dalla Chiesa che si adopera nel mondo per affermarla, nel mentre chiede all’uomo di coinvolgersi in questo impegno: «homines cuncti […] sua ipsorum natura impelluntur necnon morali tenentur obligatione ad veritatem quaerendam» (Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Declaratio de libertate religiosa, Dignitatis humanae, in AAS, LVIII, 1966, 931, n.2).
La giustizia cristiana non può prescindere dalla carità, il cui senso proprio è religioso: indica per la teologia la trasformazione completa dell’uomo, cioè indica insieme il suo nuovo stato interiore, che è il principio del suo comportamento, e la sua azione concreta. Carità e giustizia sono le virtù del giusto che cerca di agire secondo l’esempio del Figlio di Dio: la giustizia non è né alternativa, né parallela alla carità; è inseparabile dalla carità e ad essa intrinseca. Grazie all’operare dello Spirito nel cuore della Chiesa, questa diventa testimone dell’amore: tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo.
In questa ottica, la promozione della giustizia deve indirizzarsi a costituire un ordinamento giuridico ecclesiale capace di dare, con gli strumenti del diritto, una adeguata tutela dei principi e dei valori cristiani. In tal modo, all’interno della realtà ecclesiale, emerge una dimensione eccezionale del diritto: una prospettiva che vede il Diritto canonico immerso in un’ottica di esperienza di fede che illumina la ragione.
La necessità di un ordinamento capace di rendere efficiente ed efficace il sistema giudiziario ecclesiastico, ha come faro guida la norma fondamentale del diritto canonico: la salvezza delle anime in quanto scopo finale della Chiesa diventa anche principio ispiratore dell’intero ordinamento canonico.
La Chiesa ha il diritto di giudicare le cause che riguardano le cose spirituali e le cose annesse alle spirituali, nonché la violazione delle leggi della Chiesa con la possibilità di imporre apposite pene servendosi dei propri tribunali, anche con potere coercitivo. L’ordinamento contempla una gerarchia dei tribunali che esprime un legame tra il grado della causa e il grado del tribunale. In virtù di questo, i tribunali sono denominati di prima istanza, di seconda istanza o di appello, di terza istanza o tribunale supremo. Inoltre, sono previste delle regole tramite le quali il legislatore assegna una determinata controversia a quel determinato tribunale, in modo da attribuire e distribuire le potestà di giudizio nel suo concreto esercizio.
La finalità stessa del potere giudiziario si può realizzare non solo tramite le istituzioni necessarie, ma anche grazie all’impegno di quanti sono investiti della funzione giudicante.
In virtù del suo primato gerarchico il Papa è giudice supremo nella Chiesa: «Romanus Pontifex pro toto orbe catholico iudex est supremus, qui vel per se ipse ius dicit, vel per ordinaria Sedis Apostolicae tribunalia, vel per iudices a se delagatos» (Can. 1442 CIC).
Per le Chiese particolari l’ordinamento afferma la potestà giudiziaria del Vescovo diocesano. Normalmente il Papa e i Vescovi scelgono di nominare, per lo svolgimento di questa funzione, dei giudici ecclesiastici.
La qualità della imparzialità è assolutamente necessaria nel giudice ecclesiastico per garantire l’obiettività del giudizio. Infatti «Nella sua azione di “ius-dicere”, il Giudice ecclesiastico deve perseguire il primato della verità. Il primo criterio che deve contraddistinguere l’agire forense canonico è appunto il primato della verità». Di fatto, il giudice non esprime con la sentenza la propria volontà, ma manifesta solo il suo giudizio sulla volontà del corpo legislativo in un determinato caso: infatti se da una parte il giudice personifica la giustizia stessa nel pronunziare la sentenza, dall’altra la sentenza non può non rispecchiare la legge e la norma canonica.
Al momento di emettere la sentenza, il giudice deve aver raggiunto la certezza morale sulla decisione da prendere.
Il matrimonio canonico è al tempo stesso un sacramento, cioè un segno visibile ed efficace della Grazia divina, ed un contratto (foedus) con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita.
Tutta la normativa canonica esprime una particolare tutela (favor iuris) vista la grande importanza del matrimonio per il bene dei fedeli e della Chiesa.
Possiamo affermare che il fondamento del matrimonio è il consenso delle parti che deve essere manifestato avendo una sufficiente cognizione della natura e dei fini del matrimonio. Allo stesso tempo è imprescindibile che gli sposi si promettano mutua fedeltà.
Il matrimonio richiede la capacità dei soggetti contraenti di comprendere pienamente la natura dell’unione e gli obblighi che ne derivano, chi manca di discretio iudicii non potrà comprendere giustamente questa esigenza.
Per questo l’ordinamento prevede degli impedimenti al matrimonio: «Impedimentum dirimens personam inhabilem reddit ad matrimonium valide contrahendum» (Can. 1073 CIC). L’esistenza di diritti e relativi doveri nella Chiesa implica la possibilità, per il soggetto, di farli valere nei casi in cui egli ritenga che siano stati ingiustamente lesi o messi in discussione; attraverso un processo nel quale vengano definiti, chiariti o stabiliti dall’autorità sia i diritti e i doveri stessi, sia i fatti a loro connessi.
Questi casi riguardano anche il matrimonio canonico, per cui è possibile chiedere alla Chiesa di pronunciarsi sulla nullità dello stesso.
La giurisprudenza vede sempre più una evoluzione dei casi di incapacità al matrimonio.
Alcuni casi interessanti che si vogliono evidenziare riguardano l’uso di droghe che potrebbero impedire o alterare la capacità di assumere gli oneri del matrimonio.
La gravità di questa situazione al momento del consenso va esaminata caso per caso e in detto esame i giudici devono servirsi di un perito nel settore, il quale dovrà effettuare una diagnosi e fornire le proprie conclusioni logiche in merito (Cfr. Coram Bruno, 23 febbraio 1990, in ARRT, LXXXII, 1990, 142-143).
Altresì, rende nullo il matrimonio per dolo l’errore sulla persona del coniuge, dovuto alla reticenza circa determinate qualità che ineriscono alla comunione sponsale: «Uti patere debet consensum vitiat occultatio con cuiusvis qualitatis, sed illius tantum quae autodonationi coniugali essentialis sit. Illud se tradere maritali consensui proprium, non exigit (immo exigere non potest) ut quis alteri donet omnes hac singulos aspectos suae vitae ac personae; id quod essentialiter exigit est aspectuum coniugabilium donatio» (Coram Burke, 25 ottobre 1990, in ARRT, LXXXII, 1990, 723).
L’ordinamento giudiziario canonico riserva una cura speciale alla disciplina del matrimonio, infatti: «Causae matrimoniales baptizatorum iure proprio ad iudicem ecclesiasticum spectant» (Can. 1671 §1 CIC). La Chiesa si occupa anche dei matrimoni misti, per prevenire casi di nozze invalide, chiede di stabilire norme «ad consulendum nuptiarum firmitati et sanctitati nec non domesticae paci» (Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Decretum de Ecclesiis Orientalibus Catholicis, Orientalium Ecclesiarum, in AAS, LVII, 1965, 82, n.18).
Papa Francesco ha introdotto una riforma del processo canonico per la cause di dichiarazione di nullità del matrimonio, promulgando nel settembre 2015 il Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus.
Tale riforma nasce dal problema del ritardo con cui era definito il giudizio, ciò a scapito dei fedeli, costretti ad una lunga attesa per la definizione del proprio stato di vita. Nonché, dalla necessità sollevata in ambito ecclesiastico di rendere più accessibili ed agili le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità.
In tale ottica, il Pontefice ha voluto condividere coi Vescovi diocesani il compito di tutelare l’unità e la disciplina del matrimonio, anche attraverso l’introduzione di una forma di processo più breve, da applicarsi in quei casi ove l’accusata nullità del matrimonio è sostenuta da argomenti particolarmente evidenti.
L’esigenza di velocizzare e snellire le procedure ha condotto a semplificare il processo ordinario. In ciò, l’innovazione più significativa del Motu proprio è l’abolizione della doppia decisione conforme obbligatoria: d’ora in poi, se non c’è appello nei tempi previsti, la prima sentenza che dichiara la nullità del matrimonio diventa esecutiva.
D’altro canto, un processo in forma brevior è da applicarsi nei casi in cui l’accusata nullità del matrimonio è sostenuta dalla domanda congiunta dei coniugi e da argomenti evidenti, essendo le prove della nullità matrimoniale di rapida dimostrazione. In questi casi l’istanza va, infatti, indirizzata allo stesso Vescovo diocesano, egli presiede l’istruttoria ed emana la decisione finale: di dichiarazione della nullità o di rinvio della causa al processo ordinario.