Una controversia per essere sottoposta al giudizio del Tribunale Internazionale per il mare deve concernere le materie di competenza di questo come indicato espressamente dall’art. 288.
Le materie di competenza del Tribunale possono essere raccolte nelle seguenti tre categorie:
– dispute concernenti l’interpretazione o l’applicazione della Convenzione;
– dispute relative all’interpretazione o all’applicazione di un accordo internazionale in connessione con i fini della Convenzione;
– dispute sottoposte alla Camera sui fondi marini o a qualsiasi altra Camera o Tribunale arbitrale istituito secondo la Convenzione.
Il Tribunale è, tra l’altro, tenuto a decidere, in via preliminare, se una questione sottoposta al suo giudizio sia rispondente alle norme previste per l’esistenza della sua competenza in attuazione del principio generale del “competence-competence”.
Tale potere, riconosciuto dall’art. 288, comma 4, è stato oggetto del dibattuto caso giurisprudenziale Southern Bluefin Tuna (Nuova Zelanda e Australia contro Giappone).
Nell’affare di cui innanzi, il Giappone contestava la competenza del Tribunale Arbitrale costituito da Australia e Nuova Zelanda.
Il Tribunale Internazionale per il diritto del mare e il Tribunale arbitrale, nell’affrontare tale questione, pervenivano ad opposte soluzioni.
Il contrasto s’incentrava sulla rilevanza di una convenzione conclusa tra gli Stati in causa in materia di preservazione di una specie di tonno, il cui art. 16 prevede che le controversie relative all’interpretazione e all’applicazione della stessa non risolte con mezzi pacifici devono essere deferite, con il consenso di tutte le parti della controversia, alla Corte Internazionale di Giustizia o ad un Arbitrato; in mancanza dell’accordo sul deferimento, le parti hanno l’obbligo di continuare a cercare la soluzione della disputa con un mezzo pacifico.
Non essendo pervenute le parti alla soluzione della controversia con un mezzo pacifico, il Tribunale Internazionale affermava che sussisteva la competenza del Tribunale Arbitrale da costituirsi in base all’Allegato VII della Convenzione di Montego Bay, sul presupposto che lo Stato avesse considerato esaurite le possibilità di accordo amichevole.
Il Tribunale Arbitrale, invece, escludeva la propria competenza ed argomentava nel senso che gli Stati attraverso la previsione del richiamato art. 16 avevano convenuto di fare ricorso a mezzi di risoluzione scelti di comune accordo e che ciò attestava la volontà di tali Stati “di escludere l’applicazione ad una determinata controversia di ogni procedimento che non sia accettato da tutte le parti della controversia stessa”, quali sono, appunto, i procedimenti arbitrali, caratterizzati dalla promuovibilità anche per iniziativa unilaterale.
In verità, entrambi le posizioni non si rivelano immuni da obiezioni e note critiche.
Secondo la Convenzione, infatti, il diritto di scelta dei mezzi pacifici di soluzione riconosciuto alle parti non significa che l’esercizio di tale diritto impedisca il ricorso alle procedure previste nella Parte XV Sezione II.
Ciò che, in effetti, inibisce il ricorso alle predette procedure è unicamente che la controversia abbia trovato una soluzione.
Invece, se soluzione non vi è stata, è di tutta evidenza che sussista la condizione del ricorso ai suddetti meccanismi di soluzione delle controversie anche ad iniziativa unilaterale.