La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’Ordinanza del 9 aprile 2024, n. 9444, in tema di rapporti di lavoro a tempo determinato concernenti attività stagionali, ai sensi degli artt. 5, comma 4-ter, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 («Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES»), e 21, comma 2, del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 («Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183»), ha affermato, sulla base di un ragionamento logico-giuridico molto accurato e puntuale, quanto segue:
“a) le prestazioni da eseguire e il carattere stagionale delle stesse devono risultare dalla causale dei relativi contratti; nel caso di contestazioni sollevate in proposito dal lavoratore, il giudice è tenuto ad accertare le mansioni effettivamente svolte e la loro stagionalità; l’onere di provare che il lavoratore fosse addetto esclusivamente ad attività stagionali, ovvero altre a esse strettamente complementari o accessorie, grava sul datore di lavoro;
b) quest’ultimo, se convenuto in giudizio per aver omesso, in violazione dell’art. 24, comma 4, d.lgs. 81/2015, di menzionare espressamente nel contratto a termine il diritto di precedenza del lavoratore stagionale rispetto a nuove assunzioni a tempo determinato non può opporre la mancata manifestazione di interesse da parte del lavoratore medesimo e, se ha assunto altri soggetti, è obbligato al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c., così come in ogni altro caso di assunzione lesiva del diritto di precedenza”.
Nella fattispecie, la Corte di Appello di Potenza, riformando la sentenza di primo grado, aveva rigettato le domande azionate da due lavoratori nei confronti della società datrice di lavoro, che, sulla premessa di aver stipulato con la società una successione di contratti di lavoro a termine sino all’aprile 2019, erano dirette ad ottenere, in via principale, “la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il relativo risarcimento del danno ex art. 28 d.lgs. n. 81/2015”, e, in subordine, chiedevano “riconoscere la violazione del diritto di precedenza e, quindi, il diritto alla stabilizzazione del rapporto e al risarcimento del danno”.
Innanzitutto, la Corte territoriale aveva rilevato che “oggetto dei giudizi di primo grado è stato solo l’eccepita nullità del contratto a termine sottoscritto in data 24 giugno 2019, con la conseguenza che il riferimento ai contratti intercorsi a partire dal 2003 avveniva solo per dare al giudice un quadro d’insieme della vicenda lavorativa, senza che, pertanto, venissero ancorati all’oggetto della domanda, da collegare, quindi, al solo ultimo contratto; dovendosi, al contempo, porre in luce che rispetto agli altri precedenti contratti a termine sicuramente era maturata la decadenza ex art. 32 della l. n. 183/2010, peraltro, tempestivamente eccepita dalla convenuta società”.
La Corte d’Appello, non condividendo tale assunto, aveva ritenuto, quindi, diversamente dal primo giudice, che non si poteva dubitare che quelli impugnati fossero “contratti stagionali, ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 e dell’art. 19 del CCNL Alimentari”, in quanto tali da ritenersi sottratti alla gran parte delle regole cui sono sottoposti i contratti di lavoro a tempo determinato.
Con particolare riguardo al diritto di precedenza di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 81 del 2015, la Corte aveva così argomentato: “L’atto scritto richiesto a fini della validità dell’apposizione del termine deve espressamente contenere il riconoscimento del diritto di precedenza. In caso di mancato rispetto di tale norma l’art. 24 del d.lgs. 81 del 2015 non prevede alcuna sanzione espressa. Si deve però ritenere che una sanzione vi sia, e consista nell’impossibilità per il datore di lavoro di eccepire al lavoratore assunto a tempo determinato l’eventuale decadenza dal diritto di precedenza. In altri termini, la carenza di informazione comporta la non decorrenza del termine di decadenza previsto dalla legge. Certamente la mancata previsione del diritto di precedenza non può comportare, così come affermato dai lavoratori, la trasformazione del contratto a tempo indeterminato”.
I lavoratori soccombenti proponevano ricorso per cassazione con tre motivi. Il datore di lavoro resisteva con controricorso.
All’esito della Camera di Consiglio, il Supremo Collegio emetteva l’ordinanza in commento.
Orbene, i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:
1) Col primo venivano denunciati vizi motivazionali e violazione degli artt. 1, 21 e 24 d.lgs. 81/2015; si deduceva che la sentenza impugnata, per poter considerare legittimi i contratti in controversia, avrebbe dovuto “verificare l’esistenza di un effettivo nesso causale tra le esigenze stagionali e l’assunzione del lavoratore, verifica da condursi sulla scorta della documentazione (eventualmente) fornita dal datore di lavoro, verificando l’assenza di un abuso del diritto e accertando se il rispetto della normativa da parte della società datrice di lavoro fosse formale o sostanziale”.
2) Con il secondo motivo i ricorrenti denunciavano: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c. (violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancata risposta alla domanda di risarcimento per violazione del diritto di precedenza) falsa applicazione dell’art. 24, commi 1 e 3, d.lgs. 81/2015”; si eccepiva che la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata sulla “domanda risarcitoria dei lavoratori circa il mancato rispetto del diritto di precedenza”.
3) Con il terzo motivo, invece, si denunciava: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c., falsa applicazione dell’art. 24, comma 4, d.lgs. 81/2015”; con esso si lamenta che la Corte territoriale nulla abbia riconosciuto a titolo di risarcimento del danno per la violazione della disposizione richiamata la quale prevede che “il diritto di precedenza deve essere espressamente richiamato nell’atto scritto di cui all’articolo 19, comma 4” (d.lgs. n. 81 del 2015).
Dalla lettura della motivazione esposta dalla Corte di Cassazione, emerge che il primo motivo è fondato nella parte in cui censura il fatto che la Corte territoriale non aveva proceduto a verificare che il lavoratore fosse addetto esclusivamente ad attività stagionali o ad altre ad esse strettamente complementari o accessorie, con onere della prova gravante sul datore di lavoro.
Sul punto, il Supremo Collegio ha richiamato l’orientamento più volte affermato dalla stessa Corte di Cassazione, stabilendo che nel caso specifico non vi era ragione alcuna per discostarsi da siffatto indirizzo, secondo cui: “In tema di rapporti di lavoro a tempo determinato che riguardino attività stagionali ai sensi degli artt. 5, comma 4-ter, del d.lgs. n. 368 del 2001 e 21, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2015, le prestazioni da eseguire e il carattere stagionale delle stesse devono risultare dalla causale dei relativi contratti e, in caso di contestazioni sollevate dal lavoratore in ordine alle mansioni in concreto svolte e alla loro stagionalità, il giudice è tenuto ad accertare queste circostanze in concreto; l’onere di provare che il lavoratore fosse addetto esclusivamente a tali attività stagionali o ad altre ad esse strettamente complementari o accessorie grava sul datore di lavoro” (Cass. n. 34561 del 2023; Cass. n. 2764 e 3289 del 2024).
Anche i motivi secondo e terzi sono fondati nella parte in cui criticano l’interpretazione dell’art. 24, comma 4, d.lgs. 81 del 2015, offerta dalla Corte territoriale, secondo la quale la mancata indicazione nell’atto scritto del diritto di precedenza, in mancanza di una esplicita sanzione, avrebbe avuto come unica conseguenza quella della mancata decorrenza del termine per far valere il diritto di precedenza medesimo.
La Corte ha, quindi, puntualizzato che la disposizione richiamata, dopo aver enunciato ai commi precedenti il diritto di precedenza per i lavoratori a termine nelle assunzioni effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, al comma 4, stabilisce che: “Il diritto di precedenza deve essere espressamente richiamato nell’atto scritto di cui all’articolo 19, comma 4, e può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà in tal senso al datore di lavoro entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro nei casi di cui ai commi 1 e 2, ed entro tre mesi nel caso di cui al comma 3. Il diritto di precedenza si estingue una volta trascorso un anno dalla data di cessazione del rapporto”.
Dunque, la norma impone al datore di lavoro l’obbligo di “richiamare espressamente” nell’atto scritto – che al momento dell’assunzione del lavoratore contiene la clausola appositiva del termine – il diritto dello stesso ad essere assunto, una volta cessato il rapporto a tempo determinato, con precedenza rispetto ad altri lavoratori che il datore intenda assumere nei successivi dodici mesi.
Per la mancanza di tale contenuto formale la disposizione non prevede, così come nel caso in cui non risulti dall’atto scritto l’apposizione del termine, la conseguenza che la clausola sia “priva di effetto” ex comma 4, art. 19, d.lgs. n. 81 del 2015, così realizzando l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato ab origine.
Tuttavia, secondo il ragionamento della Suprema Corte, “sempre di inadempimento ad uno specifico obbligo si tratta, non ritenendo il Legislatore evidentemente sufficiente che la conoscibilità del diritto di precedenza derivi dalla circostanza che esso sia previsto dalla legge; un obbligo formale chiaramente funzionalizzato a far conoscere al lavoratore, con modalità rese certe dal contenuto dell’atto scritto, le condizioni di insorgenza e le modalità di esercizio del diritto stesso, tra le quali la necessità che questi manifesti formalmente la propria volontà di avvalersi della precedenza e che lo faccia entro un certo termine dalla data di cessazione del rapporto; ma se tale informazione preventiva non viene “espressamente” concessa all’atto dell’assunzione a termine, così come prescritto dalla disposizione in esame, il datore non potrà efficacemente opporre il mancato avveramento della condizione rappresentata dalla manifestazione di volontà del lavoratore di avvalersi della preferenza nelle successive assunzioni”.
In conclusione, “l’inadempimento alla prescrizione formale imposta al datore di lavoro è, infatti, idonea a pregiudicare lo stesso esercizio del diritto di precedenza da parte del lavoratore, laddove il datore proceda comunque a nuove assunzioni; con la conseguenza che, sul piano civilistico del rapporto di lavoro, il datore convenuto in giudizio perché inadempiente alla prescrizione formale non potrà opporre il difetto di manifestazione di volontà del lavoratore e, se ha proceduto all’assunzione di altri lavoratori, sarà comunque tenuto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1218 c.c., così come in ogni altro caso di assunzione di soggetti diversi in violazione del diritto di precedenza (cfr. Cass. n. 12505 del 2003; Cass. n. 11737 del 2010)”.
Pertanto, il ricorso è risultato meritevole di accoglimento nei limiti in cui il Collegio ha ritenuto le censure ammissibili e fondate secondo la motivazione esposta innanzi, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Appello di Potenza, in diversa composizione.